Per alcuni il tempo è diverso.
- Zeno Zeni
- 27 nov 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Il 15 novembre, quindici nazioni (le 10 nazioni dell’ASEAN più la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, la Nuova Zelanda e l’Australia), che rappresentano un terzo della popolazione e del PIL mondiale, hanno stipulato un accordo sul libero scambio, il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), rendendolo il blocco più grande della storia, più grande del accordo US-Mexico-Canada e dell’Unione Europea.
Questo patto ha l’obbiettivo di eliminare il 90% delle tariffe sulle importazioni nei prossimi 20 anni. Inoltre, stabilisce regole commerciali comuni tra i suoi firmatari, raggruppando i vari accordi di libero scambio che le nazioni dell'ASEAN hanno con gli altri cinque paesi dell’Asia Pacifica. La regola più importante è la “regola d’origine”, che esclude le tariffe sui prodotti o su parte di prodotti sviluppati all'interno del blocco. Quest’ultima potrebbe fornire alle aziende dei paesi RCEP un incentivo a cercare fornitori all'interno della regione commerciale.
Anche se il patto originalmente era stato pensato e sponsorizzato dalle nazioni ASEAN nel 2011, ha avuto il pieno supporto della Cina come alternativa al TTP (Trans-Pacific Partnership) firmato nel 2016 che include molti paesi asiatici, ma esclude la Cina stessa. L’America con Trump ha lasciato il TTP nel 2017. Il tempismo dell’accordo non potrebbe essere più significativo in quanto rappresenta un colpaccio alla politica «America First», subito dopo la sconfitta di Trump nelle ultime elezioni e dimostra che le nazioni asiatiche sono andate avanti nella ricerca pre-Trump di integrazione economica tra regioni, multilateralismo e libero scambio. Il premier cinese Li Keqiang l'ha dichiarata non a caso "una vittoria del multilateralismo e del libero scambio".
Il significato politico dell'accordo è rafforzato anche dall'assenza dell'India tra i firmatari. L'India è stata coinvolta sin dall'inizio nelle discussioni che alla fine hanno portato all'accordo, ma un anno fa ha rinunciato per i presunti potenziali impatti negativi sulla sua economia a causa delle importazioni più conveniente provenienti dalla Cina. L'escalation della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina e il fatto che Modi fosse l'unico leader asiatico a sostenere apertamente Trump potrebbero aver avuto un ruolo nel ritiro dell'India.
Vale la pena notare che tutti i firmatari, Cina compresa, hanno ribadito la loro intenzione di dare il «bentornato» all'India nel patto in qualsiasi momento.
Indipendentemente da tale decisione, è un dato di fatto che la rilevanza della Cina negli affari asiatici e globali continuerà a crescere in modo sostanziale, mentre quella degli Stati Uniti è stata una continua caduta libera da quando Trump ha prestato giuramento e sarà molto difficile per Biden cercare di invertire questa tendenza.
L'Asia e la Cina non si stanno però muovendo in controtendenza solo nel loro approccio al commercio e alla cooperazione internazionale. Hanno dimostrato di essere molto più efficaci nel controllare la diffusione del Covid-19. La Cina e l'Asia non sono state colpite da una seconda ondata di contagi, contrariamente a quanto sta accadendo nelle presunte economie “avanzate”, grazie a un sistema molto efficace di tracciamento dei contatti.
Ancora più importante, la Cina ha imparato dall'esperienza del 2008. Durante la grande crisi finanziaria la Cina ha reagito emulando la risposta reattiva delle autorità monetarie occidentali, ovvero iniettando molta liquidità nel sistema finanziario, abbassando i tassi e facendo grande ricorso al deficit fiscale per sostenere l'economia. Queste politiche si sono concluse con un forte aumento di crediti inesigibili, bolla immobiliare, debito eccessivo da parte di imprese statali, ecc. Nel 2020 non hanno ripetuto gli stessi errori, in quanto le espansioni monetarie e fiscali sono state molto diverse.
La crescita della massa monetaria M2 (liquidità secondaria, ossia moneta legale + moneta circolante + depositi bancari ) nel 2020 è aumentata di circa il 10%, appena sopra del livello minimo dello scorso anno e ben al di sotto del picco del +30% nel 2008. In termini di spesa fiscale, quest'anno la spesa cumulativa è rimasta sostanzialmente invariata rispetto al 2019 (-0,6%), ben al di sotto di ogni anno precedente e del +30% circa registrato nel 2008-2009.
Ciò è in netto contrasto con quanto accaduto nei paesi occidentali, dove i bilanci delle banche centrali e la spesa fiscale sono esplosi al rialzo. Sebbene queste mosse abbiano alleviato il dolore economico della pandemia a breve termine, hanno anche generato una frenesia di acquisto di asset rischiosi e hanno posto le basi per una futura instabilità una volta che i costi reali di tali misure saranno evidenti.
Diversi anni fa i mercati finanziari scommettevano su un possibile disaccoppiamento dei mercati emergenti dai paesi sviluppati. Ci si aspettava che i paesi in via di sviluppo progredissero nel loro percorso di crescita indipendentemente dagli avvenimenti del resto del mondo. A quel tempo questa teoria si è rivelata troppo precoce, poiché i mercati emergenti non erano ancora sufficientemente resilienti. Forse questa volta potrebbe essere diverso, almeno per l'Asia.
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